Un giornalista “deve” raccontare i fatti con obiettività, “osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”; “può” esprimere opinioni, separandole dai fatti, nel rispetto di un principio costituzionale che trova ampio risalto nel testo unico della categoria (Titolo I, art. 1; Titolo V, allegato 1, punto 2).
Tutto molto semplice, apparentemente, ma ovviamente così non è. Non lo è mai stato, in effetti, e la mistificazione, in campo comunicativo, precede la nascita della stampa: ricordate tutti un certo Costantino, fetentone impenitente e grande comunicatore, che spianò la strada a frotte di emuli adusi a legittimare le proprie sconcezze con l’ispirazione divina, per fregare le masse amorfe e credulone. La mistificazione, tuttavia, afferisce al “male”, con il quale siamo abituati da sempre a convivere, combattendolo o subendolo.
Oggi, però, un giornalista non asservito ad alcun potere (ve ne sono, per fortuna) si trova al cospetto di un problema di non facile soluzione: come gestire l’informazione scaturita dal “potere malato”, nella consapevolezza che una notizia, ancorché riferita nel modo più asettico possibile, condiziona comunque in qualche modo l’opinione pubblica.
Alcuni esempi: il vice presidente degli USA auspica che in Germania le elezioni siano vinte da un partito nazista; Trump vuole annettersi Canada e Groenlandia e ritiene che Zelensky debba arrendersi a Putin lasciandogli mezza Ucraina (al netto delle tante altre strampalerie qui omesse per amor di sintesi); il suo fido sostenitore multimiliardario Elon Musk, oltre a manifestare la stessa simpatia di Vance per i neonazisti tedeschi (“solo AFD può salvare la Germania”) ha “sancito” che il Cancelliere tedesco Scholz è un idiota, che “l’America dovrebbe liberare il popolo britannico dal loro tirannico governo”, che i giudici italiani se ne devono andare. Riportare “asetticamente” (e quindi doverosamente) questi fatti, comunque altera l’equilibrio percettivo dell’opinione pubblica: se non di tutta, ovviamente, di una buona parte.
Sono molto potenti, quei signori; conoscono bene i fatti del mondo: e se avessero ragione? Ai fatti si contrappongono le opinioni. Lasciamo stare quelle a “sostegno” della mistificazione, che non fanno testo. Parliamo degli analisti che, con grande capacità espositiva, retaggio di onestà intellettuale, alta cultura e buon senso, confutano in modo eccellente le baggianate di cui sopra e tante altre ancora. Paradossalmente, più alto è il livello della confutazione maggiore è la dignità interlocutoria che viene conferita a dei cialtroni con immensi poteri.
La contrapposizione “seria”, infatti, rende “serie” anche le baggianate. Nessuno si sogna di perdere tempo a confutare le scemenze quotidianamente sviscerate nei social media, se non in contesti di natura prettamente “sociologica”, nei quali si analizza il fenomeno nel suo insieme, non certo il singolo caso.
Per i milioni di persone che parlano a vanvera, infatti, basta e avanza la vecchia battuta dell’attore statunitense George Burms: «È un vero peccato che tutti quelli che saprebbero governare il Paese siano già occupati a guidare taxi o a tagliare capelli». (In Italia, negli anni Settanta del secolo scorso, la battuta prese piede leggermente amplificata, con l’aggiunta della capacità di guidare anche la nazionale di calcio. In quel periodo, infatti, ogni giorno i quotidiani sportivi pubblicavano “la migliore nazionale” suggerita da migliaia di lettori).
Ma qui parliamo degli uomini più potenti del Pianeta, non dello scemo del villaggio e dei leoni da tastiera! E il problema diventa maledettamente serio. Non riferire ciò che dicono rappresenterebbe una violazione dei doveri del giornalista. Non confutare “adeguatamente” le loro baggianate, retaggio di un pericoloso delirio di onnipotenza, rappresenterebbe una violazione dei doveri degli opinionisti, come minimo passibili dell’accusa di codardia o asservimento. Entrambe le cose, però, fanno “aggio” principalmente ai diretti interessati, che di fatto beneficiano anche dell’opera di chi li combatte. Un bel dramma.
Come venirne fuori? Un’arma potente è l’ironia, che se utilizzata in modo appropriato può scardinare anche le fortezze meglio protette e far cadere dal trono gli “imperatori” di turno. La letteratura e altre modalità espressive ci vengono in soccorso.
Nel romanzo “L’uomo senza qualità”, per esempio, Musil proietta nel protagonista la sua straordinaria ironia corrosiva; l’irriverente ironia di James Joice dissacra persino Dio «che ha scritto il folio di questo mondo e l’ha scritto sbagliato»; «Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi».
Giordano Bruno, nel dialogo filosofico “La cena delle Ceneri”, teorizzando “l’universo senza margine”, massacra Aristotele e il suo mondo chiuso (Infinitum actu non datur) e un bel po’ di accademici inglesi, dovendo poi scusarsi per stroncare pericolosi ostracismi, che in un primo momento lo indussero a rifugiarsi presso l’ambasciata francese.
Anche a casa nostra, l’inconsistenza di una classe politica che, nel suo insieme, si può definire “una barzelletta che non fa ridere”, trova una consona trattazione non tanto nelle critiche di “seri” analisti quanto nella dissacrante ironia dei comici Luca e Paolo, che ogni martedì, introducendo un talk show, si fanno beffe sia del mediocre Governo sia della non meno mediocre opposizione.
Mai l’umanità ha vissuto momenti di decadenza come quelli attuali, con prospettive future ancora più nefaste. Bisogna riconsiderare pertanto, tutto ciò che riguarda il diritto di parola e di replica per contrastare adeguatamente la follia al potere, senza correre il rischio di alimentarla, magari inconsapevolmente. “Seppelliamoli con l’ironia” deve diventare un grido di battaglia, in mancanza di armi più efficaci.
Soprattutto noi giornalisti dobbiamo convincerci che abbiamo una terribile responsabilità e non possiamo permetterci il lusso di eluderla nascondendo la testa nella sabbia. Nessun potente può resistere alla forza d’urto di un’opinione pubblica che decida di buttarlo giù. La vera battaglia, quindi, è tra il potere malato capace di contagiare miliardi di persone e chi quelle stesse persone può salvare offrendo loro un antidoto che li renda immuni dal contagio. Si può scegliere di stare con i primi e vivere serenamente, certo, ma è solo la tutela dei secondi che conferisce il diritto di definirsi Uomini e non quaquaraquà.
Lino Lavorgna